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Yara: intervista a Roberto Zibetti che ha interpretato Massimo Bossetti
L’interprete di Massimo Bossetti nel film Yara di Netflix, Roberto Zibetti, in un’intervista a Ciak: come si è preparato per la parte, le polemiche e dove lo rivedremo prossimamente
Il film Netflix su Yara Gambirasio
La vicenda di Yara Gambirasio ha ripreso forma nella rievocazione che il regista Marco Tullio Giordana ha realizzato per Netflix.
Entra nel nostro gruppo WhatsApp per esser sempre aggiornato su serie tv e cinemaCome prevedibile, il film ha suscitato non poche polemiche. La famiglia della tredicenne uccisa nel 2010 in circostanze ancora non chiare ha lamentato un vero coinvolgimento nel progetto, mentre i legali di chi sconta il delitto, Massimo Bossetti, hanno puntato il dito contro presunte incongruenze della sceneggiatura.
Anche il pubblico e la critica si sono espressi con pareri divergenti sulla riuscita della pellicola, che però continua ad alimentare dibattito.
In realtà, va dato merito a Giordana di aver operato una ricostruzione dei fatti asciutta, realistica, per certi versi elegante e sicuramente purgata dall’espressionismo emotivo dei media.
Gran parte del merito va però ai membri del cast, tra i quali spicca l’ottima Isabella Ragonese, vera protagonista del film, un Alessio Boni in versione più tenue del solito, e naturalmente Roberto Zibetti nei panni dell’inquietante Massimo Bossetti.
Zibetti, attore feticcio di Ronconi a teatro e rimasto nel cuore degli spettatori per Incantesimo, dove recitava accanto a una semisconosciuta Antonia Liskova, ha restituito a Bossetti un aspetto meno oscuro delle cronache, pur non rinunciando alle sue ambiguità.
Gli abbiamo chiesto come si è preparato, cosa lo ha spinto a esporsi con un ruolo tanto delicato, e cosa lo aspetta dopo Yara.
Intervista a Roberto Zibetti, Massimo Bossetti nel film Yara
Come si è approcciato a una storia del genere, che ha avuto così tanto peso sull’opinione pubblica e continua a coinvolgere persone viventi e indignate?
“Tutta la storia è molto delicata, perché al fondo c’è una tragedia di proporzioni inconcepibili. Però io ho agito come si fa in situazioni così contraddittorie o complicate dalla mediatizzazione quasi cannibalizzante dei mezzi di comunicazione. Mi sono cioè informato il più possibile sull’accaduto, assimilando le diverse versioni della storia, assorbendo l’ambito in cui agivano i personaggi, e naturalmente preparandomi a dovere su chi ho interpretato io. Mi sono affidato alla sceneggiatura, costruendo il personaggio di Bossetti con aderenza alla realtà ma allo stesso tempo un colore immaginato. Anche perché il mestiere insegna che il giudizio sul proprio personaggio va sospeso.
Nel caso di Bossetti, non era necessario avere certezze su cosa fosse successo. Abbiamo lavorato sull’ambiguità, mantenendo sempre un tono discreto per tutto il film, che in fondo, a differenza della stampa, racconta l’eccezionalità dell’inchiesta giudiziaria, i suoi colpi di scena e l’insistenza della PM che l’ha condotta”.
Dunque, incentrare il film sul lavoro del PM Letizia Ruggeri oscurando a lungo il personaggio che più di tutti ha interessato l’opinione pubblica, cioè Bossetti, era una scelta programmatica?
“L’idea non era di indagare troppo su Bossetti, ma di concentrare il racconto sui fatti certi, offrendo un ritratto oggettivo della vicenda giudiziaria”.
Ma come è arrivato a interpretare Bossetti?
“Come ormai si fa sempre più spesso, specie nei casi di personaggi realmente esistenti, per cui ci vuole un’aderenza diversa da quelli inventati: ho fatto un provino. Ho filmato io stesso un self-tape che ho mandato al regista, e la chiave che ho proposto è piaciuta. Con Marco Tullio Giordana avevamo già lavorato nei Cento Passi. Immagino ci fossero anche altri candidati, ma non so chi siano…”
Per lavorare sul personaggio le è stato dato accesso a fonti esclusive, magari agli atti del processo?
“A dire il vero, tutto ciò su cui mi sono documentato l’ho trovato su Internet. Quel poco che ho rintracciato direttamente collegabile a Bossetti è stato un audio, e poi le foto apparse più di frequente sui giornali. Del resto il Web è pieno di punti di vista sulla vicenda, ricostruiti da interviste di tutti i tipi, ai familiari, ai testimoni… Più che altro quindi c’era materiale per scoprire l’ambito in cui Bossetti si muoveva ed è cresciuto. Io ho raccolto tutto il necessario a dare di Bossetti un’immagine sfaccettata, fatta di contraddizioni e colori diversi. Poi mi sono concentrato sul fisico, l’aderenza linguistica…”
Il rapporto con Marco Tullio Giordana
Cosa l’ha convinta a proporsi per una parte che l’avrebbe esposta più che mai al giudizio del pubblico?
“Sostanzialmente la qualità del progetto, del soggetto e soprattutto del regista. Quando ci sono questi presupposti si prende il coraggio a quattro mani, e in generale ci si fida”.
C’è stata qualche esperienza passata che le ha fornito più di altre gli strumenti per calarsi in un ruolo che richiedeva tanta prudenza?
“Penso che tutte le mie esperienze pregresse mi abbiano aiutato. Mano a mano si acquista maturità e come attori si cresce. Io però in questo caso ho voluto adottare il classico approccio ‘da artigiano’. Credo di aver ricostruito Bossetti con distacco, preservandone però empatia e contraddizioni, avvicinandomi a lui ma mantenendo anche le distanze”.
Chi l’ha guidata di più nella lavorazione: sceneggiatura, regista o confronto con i colleghi?
“Devo dire che la scrittura era molto secca e precisa, quindi si trattava soltanto di seguirla. La guida principale, invece, è stato Marco Tullio Giordana, che quando dirige ha sempre le idee molto chiare su ciò che cerca. È come se cercasse una sintonizzazione: propostagli la materia, è lui a muoverne volumi e intensità… Molto aiuto comunque mi è venuto da trucco e parrucco di due grandi artisti come Fernanda Perez e Giorgio Gregorini. Per un attore la maschera resta fondamentale a calarsi nella parte”.
Come si comporta Giordana con gli attori? Dà indicazioni precise o gli lascia spazio?
“Lascia molto spazio a noi attori, pur vedendo cosa succede durante le prove in scena e orientando se necessario il lavoro con correzioni che aiutino a ottenere ciò che gli interessa”.
La scena più difficile e il giudizio del pubblico
Immagino che la scena più complessa sia stata quella del processo…
“Esatto. C’erano tanti attori e comparse coinvolte, ma soprattutto varie macchine e una serie di strumenti tecnici molto sofisticati. È stato soprattutto per questo che ha richiesto – mi pare – almeno tre o quattro giorni di lavoro. Era la scena più impegnativa del film, perché doveva svolgersi tutta d’un fiato e aveva bisogno di una preparazione attenta”.
Tra un ciak e l’altro eravate preoccupati di quale sarebbe stato il responso del pubblico verso il film?
“Sì, era un problema che ci ponevamo abbastanza spesso. E come pensavamo, il pubblico si è abbastanza diviso nel giudizio. C’è chi ritiene legittimamente che quella di Yara Gambirasio sia ancora materia troppo fresca per farne uno spunto narrativo, e chi invece apprezza che se ne sia fatto un racconto oggettivo, non mediatizzato”.
Secondo lei come si giustificano le resistenze di chi non ha digerito il film?
“Non lo so. Forse, il fatto che il film sia così secco e rigoroso, ha deluso chi credeva che avrebbe trovato invece un altro punto di vista che non quello squisitamente oggettivo”.
E sulle polemiche sollevate dalla famiglia e dai legali di Bossetti, lei cosa risponde?
“Non credo stia a me dare un parere su certe polemiche. Quello che mi si chiedeva era di rendere il personaggio di Bossetti, e io l’ho fatto partendo – com’è chiaro che sia – dalla sceneggiatura. Se proprio si vuole chiedere conto del risultato a qualcuno, al massimo bisogna farlo al regista. Ritengo però che, quando si costruisce un racconto del genere, su fatti che per certi versi restano misteriosi, sia normale che capitino presunte incongruenze, volute e non volute”.
Roberto Zibetti dopo Yara
Ha lavorato molto al cinema e in televisione tra gli anni Novanta e Duemila. Com’è cambiato – se è cambiato – il modo di lavorare su un progetto per il grande o il piccolo schermo, con l’arrivo delle piattaforme digitali?
“Alcune cose si sono perse, altre invece si sono guadagnate. Per esempio, il ritmo di lavoro a volte è più serrato, cinema e televisione ormai si mescolano. Ma è anche vero che la qualità dei nuovi progetti è spesso più alta che in passato, e ormai si assiste a una proliferazione di idee interessanti, pensate da nuove leve di autori, registi e tanto altro che stanno creando un indotto molto interessante”.
E tra cinema, teatro e televisione, per cosa si sente di propendere?
“Sinceramente non faccio distinzioni, a me piacciono tutti gli ambiti. E poi, come dico sempre, recitare resta recitare. Il vero discrimine è fare un film di qualità o mettere in scena un bellissimo spettacolo”.
E dopo un personaggio impegnativo come Bossetti, cosa avrebbe voglia di fare?
“A me piace molto fare commedia, con personaggi anche altrettanto complessi come Bossetti, ma non necessariamente dotati di un lato oscuro. Ora comunque sto lavorando alla terza stagione della Porta Rossa, e sono molto contento”.
Yara è disponibile per tutti gli abbonati su Netflix, dov’è uscito lo scorso 5 novembre.